“Sono diventata madre grazie a una donazione di seme, e ho lasciato nove embrioni nel centro a cui mi sono rivolta. Che fine faranno? E se avrò possibilità di scelta, cosa deciderò? Non so ancora nulla, vivo nell’ansia. Però una certezza ce l’ho: non riuscirei a sopportare il pensiero che …
mio figlio abbia un fratello biologico che non conosco, di cui non so nulla e che magari vive nella nostra stessa città”. E’ il lamento di Alice, 43 anni, riferito da Lia Damascelli[1] in «Io donna», il femminile del Corriere della Sera.
Più grave è il lamento di chi, anche dopo ripetuti tentativi, non riesce ad avere il «bambino in braccio». Valgano per tante madri alcune espressioni di Dominique Grange[2], un’artista francese che, dopo due fallimenti della FIVET e aver rifiutato il terzo tentativo propostole, ha voluto esprimere la vera realtà. Dopo il primo fallimento e l’esperienza vissuta con altre donne nella stessa clinica scriveva: “Alcune avevano fatto quatro, cinque , sei tentativi; erano talmente medicalizzate che non avevano neppur più parole per esprimere il loro desiderio di avere un bambino” (p.115). E dopo il secondo fallimento, ancora più a conoscenza di tante altre situazioni, ciascuna con il proprio nome, esprimeva così la realtà vissuta: “Fermiamoci due minuti! Guardiamoci: noi siamo trasformate in provette, in curve, in terreno di manovre! Dov’è l’anima, dove il sesso, dove sono i sentimenti? Dov’è il desiderio […] non ci sono che gli occhi per piangere e i denti per digrignarli sotto i fiotti dell’amarezza. Che ne rimane di noi, di voi all’i.esimo tentativo, all’i.esimo fiasco? […] Macchine ovulatrici forsennate, piccoli robots gettati agli ormoni. […] Ci sarà un momento che noi dovremo cessare di immolarci sull’altare della ricerca scientifica” (pp. 220-221).
Espressioni ambedue che, oltre a indicare i problemi personali di chi si sottopone a queste nuove tecnologie, sottolineano i seri disturbi causati dal sovvertimento della natura da quelle provocati e accompagnati spesso da forti crisi depressive[3]. D’altra parte è pesante la pressione sociale sostenuta da notizie mass-mediali che assicurano il «bambino in braccio e sano» a chi lo vuole. Pressione ormai regolamentata da leggi nella massima parte del «Primo Mondo».
Anche in Italia il 10 marzo 2004 è entrata in vigore la Legge 40 del 19.2.2004 sulla Procreazione Medicalmente Assistita, definitivamente approvata dal Parlamento il 10 febbraio 2004 dopo un iter triennale molto burrascoso[4]. Il dominante pluralismo etico aveva portato necessariamente i cattolici a operare a livello politico, secondo il criterio indicato da Giovanni Paolo II nell’Enciclica «Evangelium Vitae»[5], al fine di “limitare i danni” di una legge ingiusta e di “diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica”. “Così facendo – affermava il S. Padre – non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; ma piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui”. In tal modo, si era riusciti a ottenere una legge che dovrebbe impedire alcuni gravi mali che si oppongono al bene comune della società; legge però, come afferma esplicitamente A.R.Luño, noto docente di teologia morale, ancora “ingiusta, anche se meno ingiusta di altre”[6].
Ampi, puntuali e documentati commenti a questa legge si possono trovare in autorevoli riviste[7]. Con questa nota si intende soltanto portare l’attenzione su alcuni aspetti intrinseci e caratteristici della cosiddetta Tecnologia di Riproduzione Assistita (Assisted Reproductive Tecnology, ART) al fine, da una parte, di evidenziarne e comprenderne le finalità e i risultati e, dall’altra, rilevare le perplessità che essa solleva. Perplessità che gettano pesanti ombre sulla legge stessa.
La fecondazione umana in vitro
La nuova Tecnologia di Riproduzione Assistita era stata introdotta da Robert G. Edwards. Pioniere, egli aveva lavorato per ben 5 anni a produrre embrioni umani nel suo Laboratorio di Fisiologia all’Università di Cambridge; soltanto nel 1971[8] aveva ottenuto le prime due blastocisti umane in vitro e, dopo altri sette anni di tentativi e fallimenti[9] con il ginecologo Patrick Steptoe, aveva raggiunto il traguardo del 25 luglio 1978[10]: la nascita della prima bambina concepita in provetta. In pochi anni la nuova tecnologia si era diffusa in molte nazioni. Alla Terza Conferenza Mondiale sulla Fertilizzazione in vitro, svoltasi a Helsinki nel maggio 1984, egli poteva affermare: “Il campo della fertilizzazione in vitro sta avanzando rapidamente. Siamo ancora dominati dalla necessità di migliorare il tasso dei successi, troppo basso in molte cliniche.[…] Ovviamente il metodo è qui per restare, almeno per il trattamento della infertilità, e non c’è dubbio che potrà essere presto applicato per trattare altri problemi quale quello delle malattie genetiche”[11]. E nella prefazione al volume degli Atti sottolineava con forza: “La fertilizzazione umana in vitro ha già aperto la porta a una rivoluzione della riproduzione e, ciò facendo, ha suscitato strane speculazioni e discussioni pubbliche sulle conseguenze che ne possono seguire. […] Noi crediamo che la fertilizzazione umana in vitro è qui per restare, a dispetto dei dibattici etici, morali e legali suscitati”[12].
Senza alcun dubbio, le scienze biomediche e la tecnologia hanno fatto immani sforzi, nei trascorsi 28 anni dalla nascita della prima bambina concepita in vitro, per cercare di rispondere ai desideri di un «figlio» da parte di coppie «sterili» o «infertili»: patologie la cui frequenza, secondo le più recenti indagini epidemiologiche, si aggira approssimativamente intorno al 15-20%[13]. Il pubblico, d’altra parte, informato attraverso tutti i mezzi di comunicazione di massa, sa che oggi è possibile produrre e mantenere in laboratorio, per i primi giorni di vita, un «essere umano» allo stato embrionale e darlo a chi lo desidera.
Le ragioni prevalenti, del ricorso a queste tecniche per “avere un figlio” sono tre.
a) La sterilità e la infertilità di coppia. Sono situazioni dovute ad alterazioni morfologiche e/o funzionali che, per cause diverse (genetiche, ormonali, infettive, immunologiche, traumatiche e anche psicologiche), portano come conseguenza all’assenza o estrema scarsezza di gameti maturi – ovuli o spermatozoi rispettivamente nella femmina o nel maschio -, o a difetti che impediscono l’incontro dei gameti anche se presenti.
b) Il rischio di patologia attuale o futura del neoconcepito. I rapidi e travolgenti sviluppi della genetica umana stanno aumentando la possibilità di stabilire se i componenti di una data coppia siano o no portatori di geni capaci di causare, più o meno presto, gravi patologie in eventuali figli; basti ricordare tra queste: l’anemia mediterranea, la fibrosi cistica, la distrofia muscolare progressiva di Duchenne, la Chorea di Huntington, l’Alzheimer e varie forme gravi di tumore. In tutti questi casi, la fecondazione in vitro, attraverso la diagnosi genetica dell’embrione prima dell’impianto, permetterebbe la selezione degli embrioni da trasferire in utero. Si può prevedere che il numero di queste famiglie aumenterà e potrà diventare molto elevato col crescere dei geni patogeni noti – oggi già circa tre mila – e con lo sviluppo delle relative tecniche diagnostiche.
c) L’omosessualità. Grave conseguenza del tramonto della «morale pubblica», per cui la libertà personale è diventata legge, anche la coppia omosessuale può pretendere oggi uno da chiamare «figlio», anche se figlio non è.
Sarebbe da supporre – e oggi lo esige chiaramente la legge italiana (Capo II. Accesso alle tecniche, art. 4, 5, 6, 7) – che, in ogni singolo caso, prima di iniziare l’applicazione di qualsiasi tecnica, sia stato percorso l’iter diagnostico per definire l’esatta causa della sterilità o della infertilità, e per stabilire la presenza e consistenza del rischio genetico; e, inoltre, sia stata offerta la necessaria e completa consulenza del caso, al fine di un consenso informato. Purtroppo ciò accade molto raramente, come lo lamentava – in modo aperto e con toni gravi – per gli stessi Stati Uniti nel 1998 la New York State Task Force on «Life and Law: Assisted reproductive technologies», che emanava in merito nuove e severe disposizioni.
La situazione oggi
A 28 anni dal primo passo della nuova tecnologia è doveroso chiedersi quali ne sono i risultati e quali i problemi. Offrono una risposta dati ufficiali derivati da ampie casistiche.
Al 1984, da un rapporto collaborativo mondiale[14], emergeva che solo il 6 -7% delle donne, in cui si era fatto il trasferimento in utero degli embrioni prodotti, avevano visto soddisfatto il loro desiderio di avere un figlio, con una perdita totale del 95.5% degli embrioni trasferiti in utero.
Nel 1988, il Presidente di un Comitato di studio della American Fertility Society, terminando un rapporto sull’analisi dei risultati di 41 «cliniche della fertilità», dai quali emergeva che soltanto 311 donne su 2864 – cioè il 10,8% – aveva ottenuto il figlio desiderato, commentava: “L’informazione qui contenuta è critica per un approfondimento da parte della comunità medica, e utile per il pubblico perché comprenda meglio il problema del meno che ottimo esito che persiste in queste tecnologie”[15].
Un analogo rapporto della Voluntary Licencing Authority in Inghilterra, riferendo lo scarso successo ottenuto faceva notare: “Che nel 1986 […] 4.670 pazienti […] abbiano sopportato un totale di più di 7.000 cicli […] e da tutto questo sforzo ci siano stati soltanto 605 nati vivi” – cioè il 12,9% delle richiedenti avesse avuto il «figlio in braccio» – “è una prova che l’IVF resta una potente sorgente di grandi speranze deluse…uno stato di cose in cui migliaia di donne ogni anno giocano di fortuna con una nuova tecnica, e sono crudelmente deluse”[16].
Statistiche più recenti indicano soltanto lievi progressi. Nel 1992 negli Stati Uniti[17] le donne col «bambino in braccio» raggiungevano il 17%. In Inghilterra, R. M. L. Winston e A. H. Handyside[18] attivi in questo campo fin dai primissimi anni, riferendosi ai risultati del 1992 i quali indicavano che solo il 12,5% delle donne erano riuscite ad avere il «bambino in braccio» scrivevano: “La fertilizzazione umana in vitro è sorprendentemente un insuccesso”.
Un lieve miglioramento ancora sembra rilevabile dalle ultime statistiche pubblicate negli Stati Uniti relative al 1996[19]: su 65.863 cicli, le donne col «bambino in braccio» avevano raggiunto il 22.6%. Le ultime statistiche per l’Europa relative al 1999, preparate dalla Società Europea di Riproduzione Umana ed Embriologia (ESHRE)[20]– in cui sono inclusi anche i dati di 44 cliniche italiane – registrano su 258.460 cicli iniziati, cioè 258.460 donne nelle quali è stato fatto l’impianto di embrioni prodotti in vitro, un numero di solo 54.277 (21%) di esse che sono riuscite ad avere il «bambino in braccio»; media che, secondo la stessa fonte, scende per l’Italia al 17%, il 25% delle quali con gravidanze bi-, tri- e anche tetra-gemellari. E nel 2004, dall’analisi dei risultati dei cicli di IVF e ICSI raccolti tra il 1999 e il 2001 alla Clinica della Fertilità del Rigshospitalet della Università di Copenhagen[21], venivano proposti tre parametri come i migliori standards di successo: 1) il numero degli ovociti ottenuti per aspirazione (8,7); 2) il numero degli embrioni che si impiantano su quelli trasferiti (20%); il numero dei parti per embrioni trasferiti (14%).
Il fatto delle gravidanze multiple, tuttavia, rappresenta un notevole aumento di rischi e di complicazioni. Perciò, più di recente, si è suggerito che la variabile più appropriata di successo della Riproduzione Tecnicamente Assistita (RTA) sia da ritenere il tasso di nascite singole per cicli iniziati. In questa più corretta visione, da uno studio eseguito al Monash IVF[22], relativo a 2600 cicli iniziati nel 2001, in cui i parti singoli erano risultati 209, gli AA. potevano concludere: “nel 2001, una coppia aveva avuto la probabilità del 11,1% di avere un bambino per ciclo iniziato”. E questo, sottolineano gli AA., rappresenta “lo standard più elevato di successo”. D’altra parte, i dati da registri nazionali e internazionali dimostrano che i tassi di gravidanza tendono ad essere bassi quando sono trasferiti molti embrioni, e più alti quando ne sono trasferiti meno. Conseguentemente, J. A. Land e J. L. H. Evers[23] e altri stimolano a diminuire il numero di embrioni trasferiti, fino anche ad 1 (eSET o elective SingleEmbryo Transfer) che diventerebbe il qualificatore più rilevante.
Da questi dati appare evidente la bassa efficienza di tutte le tecnologie finora introdotte nel campo della medicina per una «riproduzione assistita». Bassa efficienza, che era da attendere sulla base delle conoscenze della biologia dei gameti e del processo della fecondazione, quale conseguenza della manipolazione di cellule tanto delicate ed esigenti. Le prove di ciò vennero ben presto, quando gli embrioni umani concepiti in vitro furono fatti oggetto di continua ricerca[24]. Si potè, infatti, stabilire che già il 40-50% degli oociti ottenuti con processi di super-ovulazione hanno cariotipo – cioè l’informazione genetica allo stadio cromosomico – alterato, e che circa il 37% degli zigoti e il 21% degli embrioni pre-impianto hanno delle gravi anomalie cromosomiche. Ma soprattutto si sta mettendo sempre più in evidenza che viene a mancare quel «colloquio crociato»[25], o processo di segnalazione a rete, tra madre e embrione che avviene durante il percorso di questo nella tuba uterina e porta alla produzione da ambedue le parti di proteine che sono necessarie per lo sviluppo regolare dell’embrione fino all’impianto. Tutto ciò spiega perché l’intervento deve essere ripetuto da 5 a 6 volte affinchè, in media, una donna possa avere, attraverso la FIVET, la probabilità del 50% di ottenere il figlio desiderato, e da 13 a 15 volte per raggiungere la probabilità del 95%; e perchè l’esigenza di ricorrere più volte a queste tecniche, altamente stressanti, può scatenare un tendenziale rigetto da parte della donna stessa e della coppia, accompagnate spesso da notevoli crisi depressive[26].
E’ da notare, inoltre, che queste tecnologie creano seri problemi anche per il piccolo gruppo di donne in cui è iniziata la gravidanza e per i nati. Vari rapporti[27] comprendenti i risultati: uno di 55 Centri da tutto il mondo, un secondo di 14 centri australiani e 1 neozelandese, e un terzo dell’ 80% delle FIVET eseguite in Francia dal 1986 al 1990, rilevavano tra le gravidanze clinicamente accertate: dal 18% al 25% di aborti sopontanei e 5% di gravidanze ectopiche; circa il 27% di gravidanze multiple con tutte le complicanze che ne seguivano, tra cui la «riduzione fetale»; il 29,3% di parti pre-termine e il 36% di nati con basso peso. Di più, come si esprimeva il rapporto australiano, c’era evidenza di un aumento preoccupante di morbidità e mortalità neonatale, con tassi significativamente superiori a quelli della popolazione generale. Questi dati sono confermati da molte analisi più recenti. Si ricorda soltanto la rigorosa indagine pubblicata nel 2002 relativa a un campione di 304 bambini, nati in Finlandia tra il 1990-1995, confrontato con un corretto campione di 509 bambini della popolazione generale[28]. Essa aveva dimostrato nel gruppo dei nati in seguito a IVF, rispetto a quello di controllo, un’incidenza: di nascite pretermine 5,6 volte maggiore; di nati con peso molto basso 6,2 volte maggiore; di nati con basso peso 9,8 volte maggiore; di morbilità neonatale 2,4 volte maggiore, con prevalenza di malformazioni cardiache; e di ospedalizzazione 3,2 volte maggiore: frequenze tutte significativamente più alte che nel campione controllo.
Una riflessione
Tutti questi dati, che esprimono i risultati finora raggiunti mediante le tecniche di produzione di embrioni in vitro con il fine di dare un «figlio» a chi lo richiede, conducono a una conclusione e a una riflessione. La conclusione è che la medicina sta operando ancora in una fase sperimentale con danni notevoli per una grande maggioranza delle persone che vi sono coinvolte. Ne segue la riflessione che l’assistenza alla riproduzione umana attraverso la produzione di embrioni umani in vitro è sfuggita al controllo di una medicina responsabile, proseguendo – forse senza rendersene conto e con il desiderio di aiutare almeno qualcuno – su una direttrice in netto contrasto con una corretta deontologia medica, la cui fondamentale e profondamente umana norma ippocratica è «primum, non nocere». Norma che è stata totalmente elusa da una legge la quale, pur necessaria per imporre una certa regola in una società dominata dal pluralismo etico, lascia purtroppo ampi spazi a comportamenti contro l’«Uomo» e la «Famiglia».
Due recenti chiari e autorevoli richiami a questo aspetto della Tecnologia di Riproduzione Assistita ne confermano la preoccupante e grave responsabilità. Il primo è un documentato articolo dal titolo «ART into Science», scritto da 12 ricercatori del Institue for Science Law and Technology (ISLAT) del politecnico di Chicago e pubblicato nella ben nota rivista scientifica Science nel luglio 1998[29]. Dopo una serie di motivati rilievi su inaccettabili comportamenti osservati in 250 cliniche della fertilità negli Stati Uniti, essi avvertivano: “Le cliniche dovrebbero, come minimo, essere obbligate dalla legge federale a manifestare i rischi, i benefici e gli specifici procedimenti delle tecniche che saranno impiegate […]i rischi associati con i farmaci utilizzati […], i rischi di gravidanze multiple, e i potenziali problemi medici e psicologici per i figli”. E concludevano, richiamandone lo scopo fondamentale: “Le tecnologie della riproduzione assistita implicano la creazione di figli e la costruzione di famiglie, un valore sociale fondamentale”. Profonda e toccante è anche la conclusione di un recentissimo scritto di due pionieri, R.M.L. Winston e K. Hardy[30], che ancora operano in questo campo a Londra, apparso con il titolo “Are we ignoring potential dangers of in vitro fertilization and related treatments?” in «Fertility», un Supplemento a Nature Cell Biology e Nature Medicine nell’ottobre del 2002, tutto dedicato a questo nuovo campo della medicina: “Non si dovrebbe – così essi – permettere che la disperazione dei pazienti, l’arroganza medica e le pressioni commerciali siano gli aspetti chiave determinanti in questa produzione di esseri umani. Portare un bambino al mondo è la più seria responsabilità. Non possiamo ignorare le nubi che si stanno addensando sopra queste terapie”. Sono proprio queste nubi che fanno emergere serie perplessità sul valore umano di questa nuova Tecnologia della Riproduzione Assistita.
La più seria perplessità è rappresentata da una di queste nubi, oscura e pesante, che sembra non si voglia vedere: è l’elevata produzione di embrioni e l’alta frequenza di quelli destinati a morte certa. Qualsiasi tecnica di fecondazione in vitro, anche dove sono posti dei limiti ristretti al numero degli embrioni da trasferire, implica la morte coscientemente voluta di molti embrioni umani – «figli» anch’essi – a fronte di «un figlio desiderato». E’ un dato di fatto incontrovertibile. Si consideri la situazione ammessa dalla legge, che limita a tre la produzione degli embrioni, e tutti da trasferire nella donna richiedente. Siano 100 le donne in cui si trasferiscono. Sulla base delle statistiche attuali, 80 di esse non avranno il figlio desiderato; quindi i 240 embrioni prodotti per loro vanno perduti; le altre 20 inizieranno la gravidanza e in circa 18 di esse si svilupperà uno solo degli embrioni, con la perdita quindi di altri 36 embrioni. In totale, quindi, su 300 embrioni prodotti 276 (92%) sono stati destinati alla morte; e ciò con chiara coscienza, almeno da parte del personale operante.
Ma c’è ben di peggio. Nella speranza di ottenere migliori risultati si è introdotta la prassi della Diagnosi Genetica Preimpianto (PGD) che utilizza particolari tecniche, le quali permettono di rilevare anche in una sola cellula alterazioni di cromosomi o geni. Da cinque o più embrioni preparati per una data coppia e hanno raggiunto lo stadio di almeno 8 cellule si prelevano – mediante biopsia – una o due cellule, si esaminano e, se si evidenzia qualche anomalia, gli embrioni da cui sono state prelevate si eliminano o si destinano alla ricerca. L’elevata entità di questa reale «selezione eugenica» è indicata dai risultati di un numero ormai notevole di ricerche. Sono impressionanti i dati rilevati dall’esame di alcune delle più informative[31]: il numero di embrioni prodotti in 276 cicli, e sottoposti a biopsia, era stato di 1347 – approssimativamente 5 per ciclo; all’esame: 761 (56,5%) di essi erano risultati anormali per la presenza di gravi aberrazioni cromosomiche e furono eliminati; 583 (43,3%) erano risultati apparentemente normali e trasferiti in utero; soltanto 39 di questi giunse alla nascita. (2,9% rispetto al totale 1347 ; 6,7% rispetto ai 583 ritenuti sani e trasferiti in utero). E’ chiaro e ben definito il piano e lo scopo del processo della Diagnosi Genetica Preimpianto: elevata produzione di soggetti umani allo stato embrionale (1347), pur con seri rischi (sindrome da iperovulazione) per la donna, nella speranza di trovarne alcuni – apparentemente almeno – buoni o non gravemente alterati da selezionare e trasferire in utero per il proseguimento dello sviluppo; ed eliminazione di quanti risultano anormali (761).
E’, in realtà, una gravissima aberrazione, inconcepibile in una corretta deontologia medica. Chi si difendesse affermando che in quello stadio non c’è un ben determinato soggetto umano, incorrerebbe in un falso scientifico e antropologico: se fosse stato lui ad essere soppresso nella sua fase embrionale, a iniziare dalla fusione dei due gameti – un reale aborto – gli sarebbe stata tolta proprio a quel momento la sua vita. Chi si difendesse affermando – come è avvenuto per il Comitato Warnock e il Comitato Donaldson – che ha più valore dell’embrione ciò che si pensa di poter ottenere, mediante il suo uso, per il benessere di altri, si assumerebbe la responsabilità di un grave atto di ingiustizia: la ragione stessa indica che non si può fare ciò che è «male» per raggiungere un «bene» probabile o anche certo. Chi si difendesse sostenendo che, piuttosto di un aborto al quarto o quinto mese psicologicamente troppo pesante, è preferibile la soppressione del soggetto prima dell’impianto, forse meno traumatica, cadrebbe in un errore di valutazione, di stabilire cioè la gravità del delitto secondo il tempo dello sviluppo di un ben determinato soggetto umano, che invece è sempre quello stesso soggetto fin dal momento della fusione dei due gameti. Di fatto, in ogni caso, si uccide sempre un soggetto umano innocente. Situazione reale in netto contrasto con una sana e corretta deontologia medica.
A questo punto ha portato l’introduzione e lo sviluppo di una tecnologia, pensata forse in buona fede per andare incontro al desiderio di un figlio, ma sfociata in una involuzione di morte. Situazioni e prospettive ormai da tempo in atto, descritte in tutta la loro cruda realtà da J. Testart e B. Sèle[32] i quali, con evidente preoccupazione, in un articolo pubblicato nel 1995 sulla rivista Human Reproduction con il titolo: “Towards an efficient medical eugenics : is the desirable always the feasible?”, scrivevano: “Ciò che sta avvenendo è un vera rivoluzione dell’etica che sorpassa le frontiere di ogni nazione” e con senso di responsabilità concludevano: “Al di là dell’esecuzione tecnica, dell’interesse individuale e di un ingenuo desiderio, i problemi sono più complessi di quanto siamo portati a credere. Noi dovremmo avvicinarci a questi problemi con uno sforzo cosciente e umiltà determinata a sostenere la dimensione etica della vita umana”. Sono affermazioni del padre tecnico della prima bambina concepita in vitro in Francia, che si dichiara ateo. E’, ritengo, la sua «ragione» o «riflessione logica» che lo ha portato a questa affermazione e a ritirarsi dal campo delle tecnologie riproduttive.
Di fronte alla situazione reale dei risultati delle nuove tecnologie riproduttive, decantate come un grande progresso della scienza per andare incontro alla domanda di un figlio e, di più, di un figlio sano, un corretto esame da un punto di vista esclusivamente deontologico, che dovrebbe essere sempre alla base dell’onesto operare medico, porta alla seguente evidente conclusione. Tutto quanto sta accadendo in questo campo implica: da un lato, la eliminazione coscientemente voluta di un elevatissimo numero di embrioni, «soggetti umani» anch’essi e «figli», da parte soprattutto di chi offre ma anche di chi chiede, nella speranza di poterne rispettivamente offrire od ottenere almeno uno e possibilmente sano; e, dall’altro, seri danni fisici, psicologici ed economici per il 75-80% circa delle donne che non riusciranno ad avere il «bambino in braccio», oltre i non piccoli problemi di quante lo avranno. Tutto ciò è in netto contrasto con il principio «non nuocere», che deve essere alla base di tutta l’attività medica. E viene spontaneo domandarsi come questa disumana preoccupante situazione, descritta nella sua evidente realtà, possa accordarsi con l’affermazione dell’articolo 1° della legge 40/2004, nel quale si afferma che questa legge “assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”. Di fatto, alla stragrande maggioranza dei concepiti si nega il diritto fondamentale alla vita.
La società è stata letteralmente travolta, senza alcuna preparazione, in un tema appassionante, carico di tensioni e speranze ma anche di illusioni e delusioni. Come sottolinea J. Brockman, nel suo recente volume «The third culture», in questa nuova cultura oggi dominante “ciò che tradizionalmente era detto «scienza» è oggi diventato «cultura pubblica». […] Viviamo oggi in un mondo in cui la velocità del cambiamento è il massimo cambiamento. La scienza è così diventata un grande racconto.[…] Non c’è alcun canone o lista accreditata di idee accettabili. La forza della terza cultura è precisamente che essa può tollerare dissensi su quali idee devono essere prese sul serio”[33]. Proprio da qui nascono molti gravi problemi che disturbano e mettono a rischio la cellula principale del tessuto sociale, la famiglia, e per ciò stesso la società.
Le prove di questo sconvolgimento della famiglia emergono da serie indagini sociologiche[34]. Un particolare sconvolgimento è da queste sottolineato per la sua maggior gravità. La procreazione – evento di significato insondabile per i mille riflessi che ha in sé, per la coppia, per il concepito, per la famiglia e per la società – è diventata un bene di consumo relativo ad altri beni di consumo; è stata ridotta a un evento che ha i suoi rischi che si devono evitare e deve, quindi, essere ultracontrollato; è stata degradata a mera produzione di esseri che devono corrispondere ai criteri di mercato o di proprio gradimento e, quindi sottoposti a selezione. Da qui la modernizzazione dei comportamenti procreativi per avere il figlio quando, dove e come si vuole, e gli abusi che si stanno perpetrando sul neoconcepito e sul non-nato «geneticamente sbagliati».
Questo processo è ormai diventato epidemico, favorito, anzi promosso, anche da voci di alto prestigio in campo scientifico o ufficiali. Il premio Nobel Herman J.Muller, spingendo gli scienziati a prendere in mano la guida dell’evoluzione umana, insisteva: “Le nozioni un tempo onorate sugli aspetti riproduttivi cederanno il posto, dinnanzi ai progressi tecnici, a più promettenti possibilità.(…) Molte usanze e atteggiamenti sono cambiati. Sarebbe molto strano se, in questa età di conoscenze e tecniche esplosive, le nostre pratiche riproduttive rimanessero immuni alle riforme”[35]. C. Djerassi, scienziato e umanista, in un suggestivo saggio – nel quale riassume il contenuto della sua composizione treatrale «An Immaculate Misconception», un’apologia della ICSI e del suo futuro – lancia, forse solo a provocazione, un nuovo paradossale messaggio. Pur ammettendo che la ICSI “solleva molti problemi etici e sociali” fa dire ai protagonisti in vista di un futuro prossimo: “Giovani uomini e donne apriranno conti di spermatozoi e uova in banche riproduttive. E quando vorranno un bambino andranno alla banca per prelevare ciò che loro necessita. Quando hanno questo conto in banca…saranno sterilizzati. La contraccezione diventerà superflua”[36]. E l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per parte sua, dettava: “In un mondo che […] si preoccupa sempre più della qualità della vita umana, si dovrà ritenere come scontato che i figli dovrebbero nascere liberi da ogni malattia genetica”[37]. È ciò che, di fatto, è avvenuto e continua ad avvenire con velocità accelerata, da quando è incominciata la “riproduzione sotto il microscopio”[38].
Qui, non possiamo che accennare ai più gravi problemi di ordine sociale connessi con la fecondazione da donatore (eterologa), con lo pseudo-figlio concesso a coppie omosessuali o libere, con l’«utero in prestito», e con la crioconservazione. I dati disponibili[39], al fine di avere una reale e piena conoscenza dello stato psico-sociale di queste famiglie, sono ancora troppo pochi, e relativi – in massima parte – a figli di copie regolari e di età non superiore ai cinque anni. Anche se da questi dati emerge che “le famiglie procedono bene” e “i figli concepiti attraverso la ICSI non possono essere distinti da quelli concepiti con la IVF o con un procedimento naturale”[40], molto correttamente S. Golombok sottolinea: “Per le decisioni informate che devono essere fatte dai politici, e per una efficace consulenza da offrire ai genitori prospettivi è cruciale avere dati sistematici sulle reali conseguenze dei processi di riproduzione assistita sui figli e sui loro genitori”[41]. Riguardo alla crioconservazione, i problemi sono tanto gravi che H. W. Jones Jr., un esperto in questo campo, dopo averli ricordati, giunge ad affermare: “A mio parere c’è pericolo che essa faccia accumulare inavvertitamente problemi etici di tale gravità che il vero futuro della crioconservazione diventa incerto eccetto che si trovi una soluzione soddisfacente”[42].
Con piena consapevolezza, perciò, C. Djerassi concludeva il suo provocante saggio affermando: “Distaccare il figlio dalla procreazione tradizionale può ben essere il più fondamentale aspetto etico sollevato dalla tecnologia della riproduzione assistita. Né le scienze né il sapere umanistico ci hanno finora preparato adeguatamente alle conseguenze del sesso in una età di riproduzione meccanica”[43].
Per un ritorno alla «sapienza»
Si deve riconoscere che le grandi aspettative, che il progresso della scienza, della tecnologia e della medicina sembrava aver aperto nel campo tanto importante della procreazione, stanno trasformandosi in una grave offesa e una seria minaccia per la società. Offesa e minaccia a cui si cerca di far fronte con leggi e regole nelle quali gli aspetti etici sono in gran parte elusi se non calpestati. La ragione ultima di ciò è evidente: nel sistema scientifico-tecnologico che domina oggi non è soltanto cambiato, ma è caduto il valore di una costante indispensabile per l’equilibrio di tutto il sistema, la costante «Uomo». Riconoscere il suo «vero valore» e di conseguenza la sua dignità e i suoi diritti è, dunque, urgente.
Il valore di questa costante la scienza, la tecnologia e la medicina non lo possono calcolare né stimare con le proprie metodologie. È, allora, necessario che lo scienziato, il tecnologo e il medico, i quali hanno oggi un forte potere sull’orientamento e sull’ attuazione dello sviluppo sociale, pur conservando scienza, medicina e tecnologia ciascuna le proprie prerogative, non restino chiusi nel loro sistema assiomatico riduttivo, ma si aprano agli stimoli di un sistema «sapienziale», che riflette un pensiero e una luce che vengono dal profondo di noi stessi criticamente interrogato. Soltanto da questa interrogazione si potrà derivare il valore della costante «Uomo» e, per conseguenza, ritrovare il senso dei limiti e dedurne le responsabilità nei suoi riguardi. E’ l’uomo nella sua realtà integrale a dettare, dalla sua interiorità stessa, la norma del suo agire, base di ogni comportamento responsabile. Si richiede solo l’impegno di leggerla e la volontà di non rifiutarla. Soltanto da questa trasformazione del sistema scientifico-tecno-medico chiuso, attualmente dominante, in un sistema aperto, dove all’«Uomo» sia riconosciuto il suo vero valore e, di conseguenza, la sua dignità e i suoi diritti, ma anche i suoi doveri e le sue responsabilità, la scienza, la medicina e la società tutta potranno ritrovare la via giusta – con sviluppi scientifici anche più avanzati – per andare incontro, fin dove è eticamente corretto, alle esigenze di chi desidera giustamente un «figlio».
Purtroppo si è verificato per queste nuove tecnologie quanto uno dei più noti e profondi eticisti della biomedicina aveva chiaramente espresso in una sua Shattuck Lecture già nel 1980: “Sebbene il pluralismo deve essere rispettato […] un gran numero di progressi biomedici ha indicato che è necessario che siano elaborate soluzioni generali e norme che impegnano dati gruppi, di carattere più che solo consensuale o procedurale. […] Se la moralità personale si abbassa a non più che all’esercizio di libera scelta, senza alcun principio disponibile per un giudizio morale sulla qualità di quelle scelte, allora la legge sarà inevitabilmente usata per riempire il risultante vuoto morale”[44]. Ovviamente, con tutte le conseguenze a livello sociale. Un esempio lampante è stata, in Italia, la legge 40 del 19.2.2004 sulla Procreazione Medicalmente Assistita, seguita da un «referendum» di protesta, -giustamente fallito – contro la sua corretta rigidità, ma, come afferma A. R. Luño, ancora “ingiusta anche se meno ingiusta di altre”[45].
In questa epoca di generale disorientamento è perciò necessario e doveroso accompagnare, guidare e sostenere le famiglie che si affermano e vogliono essere cristiane. Sono ferme e chiare le espressioni di Giovanni Paolo II[46] sulla realtà delle nuove tecnologie: “La provocazione rivolta dalla mentalità secolaristica alla verità sulla persona, sul matrimonio e sulla famiglia si è fatta, in un certo senso, ancora più radicale.[…] La paternità e la maternità sono concepite solo come un progetto privato, da realizzare anche mediante l’applicazione di tecniche biomediche, che possono prescindere dall’esercizio della sessualità coniugale. Si postula, in tal modo, un’inaccettabile «divisione tra libertà e natura», che sono invece «armonicamente collegate tra loro e intimamente alleate l’una con l’altra» (Veritatis splendor, n. 50)”.
Dinnanzi a questa situazione di fatto il cristiano deve aver chiaro l’insegnamento del Magistero della Chiesa che può essere ricondotto alle seguenti affermazioni: 1) Nel disegno di Dio, la procreazione umana deve essere frutto dell’atto coniugale; 2) La procreazione umana deve rispettare la dignità e i diritti del concepito; 3) in particolare, la procreazione umana non deve ledere il diritto alla vita del concepito. Magistero che, con particolare forza, Giovanni Paolo II[47] esprimeva nella lettera Apostolica «Novo Millennio ineunte»: “Il servizio all’uomo ci impone di gridare, opportunamente e importunamente, che quanti si avvalgono delle nuove potenzialità della scienza, specie sul terreno delle biotecnologie, non possono mai disattendere le esigenze fondamentali dell’etica, appellandosi magari ad una discutibile solidarietà, che finisce di discriminare tra vita e vita, in spregio della dignità propria di ogni essere umano”.
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5 GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica “Evangelium vitae”, Acta Sanctae Sedis, vol. LXXXVII, 2 Maii 1995.
6 A. R. LUÑO, La legge italiana sulla procreazione medicalmente assistita, L’Osservatore Romano, 14 febbraio 2004, p.4.
7 Si ricordano qui soltanto, data l’ampia esposizione e i seri commenti a più voci: Medicina e Morale, Rivista Internazionale di Bioetica 2004 / 1, 9 -108; e C. CASINI, La legge sulla fecondazione artificiale. Un primo passo nella giusta direzione, Edizioni Cantagalli, Siena 2004.
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[46] GIOVANNI PAOLO II, Discorso del Papa ai partecipanti alla Settimana Internazionale di Studio, promossa dal Pontificio Istituto per Studi du Matrimonio e Famiglia, SeDoc, CSD1317, August 27,1999.
[47] ID., Lettera Apostolica «Novo Millennio ineunte», Città del Vaticano 2001, n.51.